"Palabras", di Corso Salani

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Il mèlo atopico di Salani si gioca interamente sulla spersonalizzazione di un soggetto destituito di ogni parvenza realistica e quindi capace di riprodurre una realtà che non può far altro che disperdersi nella sgranata lividità della luce.

Palabras Corso Salani

Nel cinema invisibile di Corso Salani accade sempre qualcosa di suggestivo e sfuggente, di magico e sconcertante. L'alone di una presenza pulsante che squarcia intimità forse, ma anche il riavvolgersi pudico e intenso di microcosmi affacciatisi improvvisamente sul nulla. Palabras segna le vie contorte e defilate di uno sguardo aperto sul nomadismo inquieto di un occhio che fa fatica ad abituarsi alla vista delle cose, alla logora quotidianità di gesti superflui e meccanici. Attingendo al bacino immaginifico di un'esperienza ancora una volta deterritorializzata, Salani continua a raccontarci di una realtà extrasensoriale, navigando sull'iride scoscesa di set casuali, affidati alla stravagante abitudinarietà di movimenti circolari, gestiti come in assenza di vero moto. Lo sguardo perduto della protagonista dell'opera brancola infatti nella periferia di un presente come sottratto, vivificato da intermittenze astratte e dolorose di una memoria incisa sulla carne del detour (le sue conversazioni con le amiche che la portano a rivivere i momenti della sua vicenda d'amore) e palesata quale atto di resistenza gratuito e straziante in perenne bilico tra realtà e immaginazione di quest'ultima. L'intermezzo siderale che scuote le viscere del tempo conservandosi nell'appannamento del ricordo è allora frutto della semplice constatazione di aeree passionali costeggiate e perimetrate, come scandite da lunghi rintocchi di un orologio eternamente sfalsato che ritarda e depista le regioni più apertamente mèlo (l'amore appunto tra la protagonista cilena e un ingegnere italiano), virandole poi in tripudi fisici assoluti (la sequenza in cui fanno l'amore). Il corpo del cinema di Salani è allora un organismo scarnificato, un ammasso di membra svuotate da una loro aperta funzionalità perché destinate a consumarsi nello scacco di una relazionalità mancata sin da subito. Il set diventa allora lo specchio di un'utopia geografica che spazza via ogni facile riconoscibilità, sedimentandosi progressivamente su superfici dove brucia la fiamma di una distanza che marchia le emozioni (l'opposizione geografica dei poli del melò si riallaccia a quella di Malvina e Alberto in Occidente) procedendo alla lacerazione di vissuti tracciati come sospensioni raggelanti di vita. In questo senso il mèlo atopico di Salani si gioca interamente sulla spersonalizzazione di un soggetto destituito di ogni parvenza realistica e quindi capace di riprodurre una realtà che non può far altro che disperdersi nella sgranata lividità della luce (il colore mosso della seconda parte dell'opera), a contatto con le immobilità statuarie di eventi già vissuti. Se Bertolucci e Bellocchio ri/filmano l'evento narrativo (sotto forma di ibrido personale/collettivo) sostituendolo col sogno di quest'ultimo, Salani continua a inseguire latitudini sentimentali che erompono con forza da ogni costrizione drammaturgica, scolpendo e rimodellando l'immaginazione prodotta da un corpo improvvisamente solo (l'ultima sequenza di Palabras con la protagonista in macchina), schiacciato dal peso di un rimosso che è allora il fuoricampo flagrante e tragico di un sogno mancato da occhi stanchi.


Francesco Ruggeri, Sentieri selvaggi 7/03/2004

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