Vedere non basta e guardare non soddisfa

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Ci sono sempre molti film nascosti dentro i film di Corso Salani. Ci sono storie che restano a guardare le storie che si evolvono, e personaggi che compaiono senza quasi essere visti, pronti loro malgrado a diventare protagonisti di un altro film.

A percorrere questa filmografia sperimentale e coraggiosa ci si accorge che basta uno sguardo un po’ attento per trovarsi di fronte a mondi innumerevoli, tanto intimi da far girare la testa, eppure osservati con una chiarezza di pensiero che solo chi guarda con piena disponibilità può avere.

Gli ultimi giorni, Voci d’Europa, Gli occhi stanchi, Palabras, gli episodi della serie Confini d’Europa, sono tutti capitoli, passaggi di un cinema fatto per necessità di conoscenza. Questo il punto che li lega stretti l’uno agli altri. Vedere per conoscere e conoscere per vedere ancora di più e più in profondità. Negli sguardi delle sue protagoniste, Salani ha scelto occhi proiettati nel reale che potessero in parte soddisfare il suo desiderio di sapere. Si pensi a Le vite possibili, quasi un documentario di viaggio in cui il mondo è raccolto nei volti silenziosi, catturati per caso, sfiorati con delicata intuizione e curiosità divorante. La dimostrazione evidente di come il cinema semplicemente esisteva intorno a lui, cacciatore di storie e di volti. La sua idea di cinema la ritroviamo nella caparbia illuminazione che i film siano la vita, e nella vita si nascondono sempre i percorsi del cinema. Non è un caso che il viaggio sia il luogo comune di tanti film: in esso ritroviamo il movimento naturale del cinema. Si deve andare da Buenos Aires fino ad un luogo disperso, al confine tra Argentina e Cile, per cercare la felicità. Ne è convinta la protagonista di Mirna che lotta per questa felicità e ricorda, nella sua determinazione, Ewa di Gli occhi stanchi.

Il principio è quello di seguire le più diverse strade per tornare a casa, a patto, però, di considerare “casa” un posto nel mondo il più vicino possibile all’universo delle immagini in movimento. Che è tormento, non solo gioia. Così si dice, infatti, ne Il peggio di noi, diario di lavorazione sul set di un film, che è testo da vedere e da ascoltare, ingannevole e ipnotico in uguale misura. Non si tratta di recuperare di un film quello che è stato scartato, ma, ancora una volta, di cercare tutto dentro di esso, rielaborare le linee spezzate di quei giorni, sul set, ricucire i pensieri, allineare incoerenze e parole disperse. Si tratta di sporgersi, un po’ dentro e un po’ fuori, per riconoscersi, scoprirsi e inventarsi. Aprire porte nascoste, superare i confini possibili e (finalmente) arrivare a rompere tutti gli schemi. Come a dire che è impossibile accettare di vedere senza guardare, ed è utopia credere nella separazione netta tra cinema e vita.

Tutti i film di Salani rappresentano l’esperimento riuscito di come si possa capovolgere il punto di osservazione e vedere la realtà a partire dalla finzione, e viceversa. Gioco di infiniti ritorni e deviazioni sull’asse della memoria, il ricordo ancora pungente che non smette di creare immagini dentro le immagini. E così via, da Eugen si Ramona a Occidente, da Corrispondenze private a Palabras, mettendo insieme primi piani, dettagli, inquadrature rubate, tempi sospesi dove sta custodito tutto il tempo del mondo. Il massimo di realismo e il massimo della messa in scena. Due livelli che Salani è sempre riuscito a fare incontrare, trasformando ogni film in lettere d’amore, scritte d’un fiato, confondendo realtà e realtà, facendo convergere la prassi del cinema con l’ossessione della vita.

Sta qui il tocco riconoscibile di un regista che si è interrogato continuamente sui modi dello sguardo e sulle possibilità di andare oltre la macchina da presa, per superare il limite fisico dell’obiettivo e sperimentare le forme nuove e urgenti del vedere.

Grazia Paganelli

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