Intervista a Corso Salani

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I titoli dei suoi film sono sempre significativi, esprimono, anticipano già il percorso che seguirà, che si materializzerà nel testo filmico. Il peggio di noi è precisa conferma di questo elemento ricorrente nella sua filmografia.

 

Nel mio caso credo che i film, e Il peggio di noi in particolare, spesso fanno scaturire tante cose che altrimenti non accadrebbero, sono sempre l’occasione per vivere emozioni, sentimenti che solo durante le riprese io riesco a trovare; e sono, i film e le occasioni che essi creano, il motivo per continuare, invogliando a farne altri. Ma sono anche l’occasione in cui ognuno, io per primo, dà il peggio di sé, non sempre, ma spesso… In tal senso, Il peggio di noi parla di quello che può accadere nel corso di un’occasione così particolare come quella della lavorazione di un film, soprattutto un film come Palabras, girato in Cile con poche persone e in posti molto isolati, ovvero un teatro perfetto per fare uscire il peggio di ognuno, almeno quello che io considero il peggio, perché poi per fortuna riesco a mantenere una certa obiettività per considerare che quelle cose per me negative sono appunto osservate secondo un punto di vista privilegiato, il mio, che non è detto sia quello giusto…

 

Anche perché nei suoi film, fatti sempre con una troupe molto, e sempre più, ristretta, e per il modo con cui vengono concepiti e girati, il periodo della lavorazione costituisce davvero un lungo momento di convivenza con le altre persone coinvolte…

 

È vero, e accade in maniera sempre più radicale. È un convivere con altri, che sono quelli della troupe, ma anche con i personaggi, la cui presenza è, diventa sempre più reale, quasi. Alla troupe piccola io personalmente aggiungo almeno una, due, tre persone… personaggi, che però fanno parte del lavoro ed è come se fossero lì in quel momento. E ciò rappresenta chiaramente già una difficoltà. Ma non saprei fare in altro modo. Condividere il lavoro con pochi per me è sempre stata l’esperienza più bella da vivere. Ancora oggi nei film cerco di inserire scene che ricordino Voci d’Europa, il mio primo lungometraggio di quasi vent’anni fa, il film che ha dato l’inizio a questo percorso di ricerca così personale… Poi, forse, di lavoro in lavoro sono andato a pretendere un po’ troppo da persone, magari anche giustamente, non disposte a confondere così profondamente la loro vita con il lavoro. Da parte mia la delusione, il dispiacere, anche la disperazione, è questa: investire tanto di sé sperando, pensando che anche altri investano nella stessa maniera. La delusione la provo io, ma non è detto che non sia giusto non partecipare con la stessa intensità. Però, mi riconosco il diritto di rimanerne deluso.

 

Il passo radicale de Il peggio di noi - che spinge ancora una volta la sua filmografia in territori sorprendenti, pur mantenendosi in assoluto dialogo con le opere che la precedono - è proprio questo, quello che dal rimanerne deluso porta al decidere di farci un film…

 

Lo so, però non c’è più distinzione fra la vita e il cinema, come dico spesso nel diario che racconta la mia esperienza durante Palabras, ovvero ne Il peggio di noi, che si basa su quel diario. Da un lato, credo che ciò sia il risultato che ho cercato, anche tanto, direi quasi fin dall’inizio. Adesso non vorrei essere andato troppo oltre, però non c’è davvero più tanta differenza, anche se, per esempio, io non sono quasi più in scena. Non sento una frattura da quando comincio il film a quando finisce al periodo di attesa per iniziare a girarne un altro - fa parte tutto della stessa vita, quindi le ferite o le delusioni riesco a riconsiderarle, nel caso de Il peggio di noi prima attraverso il diario, poi riutilizzando il diario per il film. Perché, in fondo, penso che Il peggio di noi sia una sorta di dichiarazione, anche spropositata, d’affetto, d’amore, per chi ha lavorato con me e nonostante il fatto che poi ci si sia persi. Ma credo che sicuramente quelle persone si sentiranno offese; eppure penso che a una seconda lettura leggerebbero il dispiacere di non essere comunque riuscite, su quel set cileno, a condividere le stesse emozioni. Evidentemente si è trattato di un passaggio molto forte per cui, senza pensarci lucidamente, da parte mia c’era bisogno di un film per affrontarlo, la sola scrittura non bastava…

 

Infatti nel film c’è sì lo sfogo verso quello che è successo ma al tempo stesso le immagini dicono di un grande atto di complicità, d’amore, di vicinanza, di dolore, penso ai primi piani che lei ri-usa dell’attrice protagonista, Paloma Calle…

 

Sono d’accordo. Anche perché, comunque e nonostante tutte le difficoltà, chi ha lavorato e diviso con me un’occasione così importante mi rimane in qualche modo legato per sempre, al di là di come poi vadano le cose - quello è quasi indipendente. Nel senso che quanto è stato vissuto insieme, in questo caso in quasi due film, perché oltre a Palabras ci sono scene da Corrispondenze private con Paloma, non viene cancellato solo perché certe cose sono poi andate male. C’è stata una comunione particolare che non può venire dimenticata. Da parte mia esiste dunque forse più la disperazione, il rimpianto e il rammarico che questo scambio non si possa ripetere piuttosto che la rabbia, il rancore per quello che di negativo è accaduto.

 

Alla luce di entrambi i testi, sembra che il vero Palabras sia Il peggio di noi… Mentre Palabras aveva talvolta qualche obbligo narrativo un po’ distante dal suo solito procedere, Il peggio di noi contiene la storia raccontata in quel film, ma liberata da certi ostacoli diegetici.

 

Direi che è sempre la stessa storia… perché in Palabras le molte parole che dice la protagonista Adela, interpretata da Paloma Calle, erano in qualche modo il diario di Occidente, anche se non poteva chiaramente esserci un riferimento così esplicito a quell’altro mio film - l’ho capito dopo, quando l’ho fatto, una volta finito il film. La delusione di Adela - per aver vissuto un periodo così intenso in un luogo isolato con Alberto, che in quel caso ero io, e tanto intensamente la separazione improvvisa e quasi senza ragione - è quella che si vive quando si mette in scena un film e ci si innamora del personaggio, un personaggio che esiste nel momento in cui esiste la lavorazione del film e poi scompare o diventa di tutti o di chi vede il film, e quindi ecco già affiorare, manifestarsi la gelosia… Alla fine è sempre la stessa storia, solo che ne Il peggio di noi il ragionamento è più diretto. Così, in questo gioco di specchi, potrei dire che Palabras sia un po’ Il peggio di noi di Occidente

 

Parliamo di come ha costruito Il peggio di noi. Il film comincia con un provino allo specchio in una stanza, che fa parte di Corrispondenze private, e con un progressivo avvicinamento al volto e agli occhi della protagonista. Da un insieme a un dettaglio. Così come la sua voce, leggendo il diario, cresce sempre più per tensione, sfogo, intensità, creando una sorta di altro, ulteriore avvicinamento. Come è stato dunque costruito il film, nel ri-utilizzo delle immagini pre-esistenti e nell’uso della voce che legge come si trattasse di un piano sequenza della parola?

 

Il testo era molto più lungo. La lettura è stata interrotta solo dal cambio della cassetta, per cui si è trattato anche di una prestazione fisica non indifferente… Poi, piano piano, il testo è stato ridotto, ripassando, togliendo molte ripetizioni. E le immagini hanno seguito in modo particolare le parole, perché in qualche modo sono slegate dal testo letto. Un testo che segue un percorso specifico, inizia con considerazioni più generali per poi rivolgersi soprattutto all’attrice protagonista. Proprio come le immagini, che inizialmente comprendono più elementi, sono più allargate, prima di concentrarsi su Adela/Paloma. D’altronde, questo è il mio modo di lavorare: via via che il film procede, che ti affezioni alla storia e al personaggio femminile, sento l’esigenza di andare sempre più vicino a chi lo recita, quasi non mi basta neanche più il primo piano più stretto possibile sugli occhi, avrei bisogno di andare oltre, è come se uno si volesse trasformare nel personaggio, penetrare in esso. Così, anche per quanto riguarda Il peggio di noi mi sono accorto in seguito della manifestazione di questo passaggio graduale. Ma, una volta tanto, si assiste a un’apertura finale con la lunga inquadratura da un’auto di una valle cilena…

 

Un lungo camera-car in soggettiva. Di chi?

 

Non lo so, quella è stata una cosa strana… Finito il film ero rientrato in Italia; poco tempo dopo tornai in Cile, per un mese e senza avere ben chiare le intenzioni. In quell’occasione però feci delle riprese, senza nessun attore, percorrendo esattamente l’itinerario del film, i posti identici dove avevamo girato. Quel lungo camera-car lo girai in occasione del mio ritorno su quei luoghi. Non so di chi è la soggettiva, penso mia, nel senso di chi in quel momento de Il peggio di noi finisce di parlare e guarda… Non vorrei che magari dietro i dossi di quella strada apparisse un altro personaggio femminile cui dedicare altri film…

 

Anche perché con quella scena ci si libera della tensione che fino a quel momento il film ha prodotto, ma ci si incammina lungo una strada impervia…

 

…che non è un’autostrada tedesca, no…

 

Il film è contornato da una canzone. E come sempre le canzoni hanno un ruolo fondamentale nei suoi film.

 

È una canzone di Charles Aznavour, ma c’è una cosa un po’ strana da raccontare, e che ha ancora a che fare con Palabras perché era già successa con la canzone di quel film, di una cantante cilena che andai a sentire un po’ per caso durante la preparazione. Quella canzone sembrava scritta per il film, o viceversa. Anche nel caso di quella di Aznavour mi piaceva molto la melodia e così all’inizio non mi ero soffermato troppo sul testo; in realtà le parole, che esprimono l’impossibilità di un uomo di vivere senza la figlia, di vivere orfano della figlia, sono molto legate a quello che accade ne Il peggio di noi. Così, mi sembrava che aprire e chiudere con la stessa canzone fosse un modo di creare un’analogia fra due testi apparentemente lontani, ma al tempo stesso senza voler far avvertire per forza quel legame. È l’unico orpello che mi sono concesso in un film dove non ci sono neppure i titoli perché non considero Il peggio di noi un film dove dover mettere dei nomi, nemmeno il mio, e delle qualifiche. È un lavoro che si allontana dalla forma del film vero e proprio. Era quindi inutile introdurre quel genere di informazioni altrove necessarie, qui non servivano, per cui ho preferito tenerlo secco, in tutta la sua essenzialità.

 

Ascoltando la lettura del diario, traccia audio che percorre tutto il film, dove la sua voce ha fisicità, è corpo che si vede, personaggio, si ha l’impressione di una sorta di piano sequenza in voce. Invece lei ha operato un certosino lavoro di ripulitura, di montaggio. Quali sono stati i passaggi che hanno portato dalla parola scritta, dal diario iniziale, a quello che viene letto nel film?

 

La scrittura del diario è iniziata tre settimane dopo la fine della lavorazione del film, quando sono tornato in Cile, e ha preso uno spazio di tempo e di impegno spropositato, nel senso che ogni momento era buono per scrivere decine di pagine. D’altronde a me succede sempre così, e anche in Cile è stata la stessa cosa, una scrittura ininterrotta continuata poi, a lungo, quando sono tornato in Italia. È durata sei-sette mesi, le ultime pagine le ho scritte a Bologna quando stavo girando, come attore, Il vento di sera. Quindi, il materiale è rimasto lì, fermo, per due-tre anni. Nel frattempo, stavo iniziando a pensare di rivedere, come primo passaggio, tutto il girato del film. E da lì è partita l’idea di fare un diario che inizialmente volevo fosse, pensavo potesse essere una specie di diario da dare alle persone con le quali avevo lavorato, ma poi ha preso un’altra forma, inattesa, giorno per giorno… Infine, il lavoro complessivo per Il peggio di noi ha preso quattro mesi, fra lettura, riduzione del diario, montaggio, che ha richiesto parecchio tempo. All’inizio ho registrato tutto il diario con una telecamera, interrompendo la lettura per cambiare cassetta ogni ora. Si trattava di circa tredici ore… Poi, ho cominciato a riascoltarlo parecchie volte, mantenendo la sequenza della lettura ma facendo un costante lavoro di riduzione. Il crescendo di emozione che c’è nel film era già tutto contenuto nel diario, che partiva con una certa distanza per poi incattivirsi o addolorarsi di più.

 

E sulla scelta delle immagini come ha lavorato?

 

Quel lavoro è andato di pari passo con la lettura, le immagini le avevo già acquisite, andavano montate. A me ha sempre affascinato il fuori set, non nel senso del making of, che non mi interessa, bensì di quei momenti che vengono ripresi prima o dopo i ciak, o quando la camera rimane accesa e vede la vita che si svolge intorno alla scena che sta per iniziare o è appena finita. Ho cercato molto questo, i ciak, le attese degli attori, anzi, più che altro di un’attrice - momenti che sono già del film ma che poi vengono scartati, e tanti frammenti di scena in cui in qualche modo mi ri-innamoravo del personaggio. Questo lavoro mi ha permesso così di recuperare il personaggio di Adela, ed è stato emozionante, per me era come riscoprire di avere un’altra possibilità con lei, di non perdere definitivamente un personaggio.

 

Torniamo alla scena d’apertura del provino e alla presenza dello specchio. Mi sembra importante perché fin da subito raddoppia lo sguardo, in un film tutto costruito sul ripensare, rivedere, risentire, sulla superficie e profondità della memoria…

 

L’idea dello specchio è stata consapevole al momento del provino fatto da Paloma Calle per Corrispondenze private, perché quelle dovevano già essere, come in effetti sono state, scene rubate, ovvero iniziare la ripresa prima dell’inizio del vero e proprio incontro con le attrici. Avevamo trovato per caso quella stanza a Madrid, con la sala con lo specchio, puntando la camera per filmare l’ingresso delle attrici, i saluti, le presentazioni… Ed era l’inizio ideale perché davvero quello era il momento in cui cominciava tutto, l’istante in cui Paloma - una persona alla quale non sono e non sono mai stato legato se non per i film fatti insieme - entrava nella sala e, un po’ retoricamente, nella mia vita, nei miei film, nel mio cinema. E ne Il peggio di noi mi piaceva aprire il film con quella scena perché appunto da lì è partito tutto, da quella stanza è iniziata una parte della mia vita.

 

I ciak sono molto presenti ne Il peggio di noi… E hanno una presenza diegetica particolare, entrano in campo aprendo il testo come una sorta di lampi di memoria, di immagini al tempo stesso aleatorie e tangibili…

 

Sì, hanno una dignità narrativa e un valore all’interno del mio percorso, del mio sforzo di confondere i confini tra quello che è il film e quella che è la vita al di fuori del film. Un ciak forse non ha un valore in sé come immagine, ma per me è un punto di passaggio fondamentale, il momento delicato in cui tutto quello che riguarda la scena deve ancora succedere, con l’attore sospeso tra il campo e il fuori campo… Questo istante mi interessa molto nei film che giro, anche se non riesco quasi più a sopportarlo quando faccio l’attore per altri, non so come mai ma è un momento di grande tensione che ha contribuito ad allontanarmi ancora di più dal recitare per altri, lavoro che svolgo sempre più di rado.

 

Con Il peggio di noi il suo cinema si avvicina al melodramma, contiene scene madri, cerca di filmare l’infilmabile sul volto di una donna che diventa spazio filmico, soffermandosi sulle lacrime…

 

Per un documentario ho da poco girato in Portogallo, alle terme, usando io stesso la videocamera, una scena di massaggio facciale sul volto della protagonista: è stata la prima volta in cui ho avuto la sensazione di stare facendo un film pornografico perché era un’occasione per avvicinarmi ancora di più a un volto massaggiato dalle mani di un altro… Ripensandoci, probabilmente credo che questo volere avvicinarsi fino a cercare i dettagli più minuscoli di un volto sia come un rapporto d’amore con i personaggi. C’è da parte mia la necessità di diventare lo stesso personaggio, che si manifesta nella ricerca di un contatto così ravvicinato, fino a confondersi con esso. Sono cose che girando vengono da sole, arriva un momento in cui senti che quel che sta intorno a quei corpi non interessa più. E il finale de Il peggio di noi va in questa direzione, con i primi piani ossessivi sul volto dell’attrice, con le sue lacrime - immagini che ho recuperato dal girato di Palabras, che non erano state inserite in quel film. La disperazione, che è quella che mi ha spinto a fare Il peggio di noi, è che per me ogni volta è spaventoso constatare come gli attori riescano a dividersi fra l’intensità in scena, o comunque quello che mi trasmettono durante le riprese, e la distanza dal personaggio che mostrano appena dai lo stop. Per me quella frattura è inconcepibile, non esiste, non dovrebbe esistere, perché il personaggio rimane vivo e la minima distrazione di chi lo interpreta è come un insulto… In questo senso non è che Il peggio di noi lo consideri lecito o giusto, è lo sfogo di un pensiero che ho, e riconosco che forse non è il pensiero giusto, che ci si possa avvicinare al lavoro con altri spunti… Ma questo è un problema che non nasce oggi, che avevo già quando lavoravo su Gli occhi stanchi e Occidente, anzi è iniziato proprio con la mia attrice di quel periodo, la polacca Agnieszka Czekanska. È un nodo irrisolvibile, anche giustamente, ma dolorosissimo, ed è l’unico motivo per cui forse potrei pensare di non fare più film con attori, di non fare quindi più film. Ogni ciak lo vivo come se i personaggi si allontanassero per sempre da me, cosa legittima, ma per me, che inoltre con i distacchi ho poca confidenza, faticosa e insostenibile…


Intervista di Giuseppe Gariazzo, dal libro "CONVERSAZIONI, il cinema nelle parole dei suoi autori" Lineadaria Editrice

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