Il piacere di guardare

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Il senso apolide di un cinema libero e intimo, ma anche rigoroso e proteso verso una precisa ricerca formale, caratterizza tutta l’opera di Corso Salani regista. Sei lungometraggi stretti l’uno all’altro da un’idea forte di continuità che si rivela non solo nelle scelte narrative e negli stratagemmi del racconto, ma anche nello sguardo limpido che si serve del cinema per mettere in scena un mondo che sempre con il cinema confina. Personaggi e luoghi che ritornano, di film in film, individuati nei loro cambiamenti e nelle trasformazioni che il tempo ha imposto sia sul corpo di quei luoghi e di quelle figure, sia sulla forma del punto di vista.

Nel suo insieme, la filmografia di Salani, si presenta, infatti, come un percorso a tappe, come una staffetta che, però, si allarga fino a comprendere una pluralità di (ri)partenze, le quali, poi, vanno a coincidere tutti con i temi sfiorati, annunciati e indagati nei suoi film: la memoria, il ritorno, lo spingersi sempre fuori dal centro.

Ecco i nuclei attorno ai quali si costruiscono le singole storie, il più delle volte esili ed essenziali indicazioni che servono da vettore per una macchina da presa pronta a registrare le pause, i vuoti, gli attimi di sospensione tra un’azione e quella successiva, tra un gesto e la reazione ad esso conseguente. In questa attesa di tempo si esprime il piacere di guardare e di vedere, e quindi il desiderio di conoscenza che ad essa è strettamente legato. Come il personaggio di Alberto in Occidente (forse non a caso interpretato dallo stesso regista), che segue con ipnotica determinazione la rumena Malvina. La cerca nei luoghi a lei abituali, abita, con la sua presenza perentoria ma silenziosa, gli spazi da lei percorsi, aspetta il suo vivere quotidiano senza più alcuna maschera o finzione. Si presenta semplicemente, osservatore discreto ma attento, dietro il vetro di una porta, sul sedile di un vagone ferroviario, nel campo lungo di un molo. Proprio così, a ben vedere, si compie il cinema di Corso Salani, occhio sensibile che non rifiuta di mettersi in gioco e di includersi nella scena. Senza il peso della metafora e senza la necessità di un velo, ecco che il punto di vista entra direttamente nello spazio riservato alla rappresentazione, cancellando e contaminando i termini delle classificazioni (tra i modi peculiari del documentario e quelli tradizionali del cinema di finzione), come se l’io narrante fosse anche oggetto del narrare.


Appunti di viaggio, anzi, pagine filmate di un diario, dove il punto di partenza è sempre la realtà intima che trova nel mondo circostante, nei microcosmi scelti di volta in volta, il giusto contraltare, in cui far specchiare e convivere la forma diaristica e quella documentaria. Il documentario rappresenta lo strumento ideale per abbracciare gli spazi, trasformati in set e descritti con l’attenzione rivolta soprattutto ai particolari e alle sfumature del paesaggio. Nella maggior parte dei casi, si tratta di luoghi marginali soprattutto dal punto di vista geografico (ha girato a Gibilterra, attraverso l’Argentina degli immigrati italiani, nella Romania della rivoluzione), in cui converge il duplice desiderio di mettere in scena lo spaesamento dei suoi personaggi, e una ricerca costante del confronto con altre persone e altri mondi. A partire da questi elementi, i film si vanno costruendo nell’accumulo dei dettagli, che spesso sono costituiti dall’alternanza ritmica di parole e silenzi, nel ritornare sui propri passi per mettere in luce ogni volta un aspetto diverso delle cose, e nello sperimentare le diverse direzioni che un’idea, un’immagine, possono prendere.

Cinema nel cinema, si potrebbe dire sinteticamente, a patto che si tenga ben presente che qui l’assunto si arricchisce di inedita immediatezza, di quella fluidità semplice che permette agli opposti di convivere e ai controcampi impossibili di mostrarsi nella stessa inquadratura, perché tutto deve essere custodito. Lo spirito fresco che investe queste immagini è quello che spinge alla conservazione di ogni dettaglio, dentro e fuori il film, dentro e fuori il lavoro sul set. Inevitabile, allora, che ogni lavoro si arricchisca di un’altra marginalità, anzi, di un altro non luogo, rappresentato dalla linea sottile tra il cinema e tutto il resto, su cui restano in bilico, ad esempio, Cono sur e Gli occhi stanchi, testi esemplari nel loro essere chiusi e ripiegati su se stessi, e nello stesso tempo naturalmente proiettati verso l’esterno. La loro unità sta nell’affermare di volta in volta la necessità di questa linea di confine che si allarga ad ospitare universi e storie e che, come nell’ultimo Corrispondenze private, include già un film che ancora deve farsi. Cinema apolide e nomade, dunque, anche quando il viaggio è finito o è stato relegato al fuori campo. Si pensi rispettivamente a Voci d’Europa e Gli ultimi giorni, stretti tra un arrivo e una ripartenza, reale o solo suggerita, oppure irrequieto e denso, nel suo indugiare attorno a realtà “provvisorie” ma perfettamente delineate.

E marginale, per scelta, è la collocazione di Corso Salani nel sistema produttivo italiano, sia nell'ambito del cinema cosiddetto indipendente, sia in quello ufficiale. Lo dimostrano, ancora una volta i film, da Voci d’Europa a Cono Sur, da Gli occhi stanchi a Corrispondenze private, che rispecchiano tutti il desiderio di una totale libertà espressiva, e quindi anche produttiva, che lo spinge a rifiutare le appartenenze e le facili classificazioni.


Grazia Paganelli

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